Maurizio Rinaudo è nato nel 1946 a Venasca, in Val Varaita, conosciuta per i candidi ricami delle giornate invernali i quali, per antica tradizione, si traducono in caratteristiche decorazioni sui mobili e anche sugli attrezzi più semplici, domestici ed agricoli.
Abbiamo sottolineato questo aspetto della Val Varaita in quanto l’atmosfera che vi regna, i boschi quasi inesplorati, i sentieri solitari, i torrentelli salmodianti invitano alla riflessione e l’uomo, abituato a colloquiare con gli animali del bosco, con gli uccelli dell’aria, è sempre solo con i suoi pensieri, anche se la solitudine non è velata di tristezza; e Maurizio Rinaudo ha conservato, anche se oggi risiede ed opera allo sbocco delle Valli del Chisone e del Pellice, il carattere che gli ha impresso la sua terra, con i suoi ricami candidi, con le sue incisioni lignee, con l’inverno che sembra durare per ogni annata un giorno in più rispetto alle altre valli, anche le più vicine, come quella del Pellice, le quali tutte confluiscono poi nella grande strada che porta giù, giù, al mare, i limpidi pensieri di questi montanari.
Certamente Maurizio Rinaudo ha scorto nei boschi sopra Venasca quello scoiattolo che, sul ramo del castagno, tiene tra le zampette la nocciola che presto rosicchierà e la guarda con soddisfazione, pregustando il bocconcino; così come gli “idilli” agresti, i buoi che trascinano l’aratro, il cavallo magro e macilento che tira il carretto, la ruota del vecchio mulino, appartengono a quel mondo contadino che gli è rimasto nel sangue; qui, a Osasco, la neve è forse mono candida, si ingrigisce più facilmente, è vicina la città con tutti i suoi peccati, ma si vive sempre in solitudine: anche l’albero più robusto, vigoroso, solo o in piccoli gruppi, contorto per le sofferenze, vive in questa atmosfera, senza compagni di viaggio, senza un amico con il quale scambiare una parola, e tutt’intorno è neve, bianca, sì, ma con un velo grigio che attraversa la crosta gelida; la piana, evidentemente la valle del Pellice che allarga, esprime, fuori dalla stretta dei monti, il concetto di quello che potrebbe essere l’infinito, più simile, con le pietre del torrente, che occupa sempre più spazio, ad una terra lunare che all’azzurro del cielo. Talvolta una casina bianca, un focolare che rompe la solitudine, pur non riuscendo a vincere il freddo che regna tutt’intorno, si fonde con il candore del cielo e della terra ed allora vi leggi un sorriso a fior di labbra, un contento che è tutto interiore.
Soltanto quando esplodono i fiori degli albicocchi e dei peschi questa gioia si fa più piena, valica i confini dell’animo, così come l’alba, sull’arco ampio del Pellice, incendia, come un fuoco freddo, gelido, la catena dei monti, le guglie rocciose che ad intervalli quasi regolari emergono dalle groppe e gli alberi intorno, i frassini , gli aceri, le betulle e le siepi e gli argini di questo torrente che pare voler conquistare il mondo rotolando il suo pietrame verso la piana, quasi l’immagine di un padre che invita i suoi figli a cercare la fortuna per le vie del mondo.
E’ un’alba fredda, color lilla, quella di Maurizio Rinaudo, sembra volersi riferire al destino di questa gente di montagna che è costretta ad abbandonare i suoi ricami fioriti per avviarsi sulle strade faticose ed incerte della piana, non si scorge traccia di verde ai loro margini, tutto è brullo, anzi, riarso, intorno, ma la speranza vive, si apre un varco tra le crepe del terreno, in quell’impercettibile sorriso che nasce dalle labbra del nostro artista.
Aldo Spinardi
Critico - Giornalista